Io e le mie password

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Non vi so dire quanto sia felice. Ho impiegato due ore di pensiero fisso e completamente assuefacente nel cercare di ritornare nella mente della mia me di quattro anni fa, rimestando tra i più reconditi ricordi per ritrovare la maledetta password per ritornare a scrivere qui. Non so perché proprio oggi ho avuto la brillante idea di ritornare per controllare che fosse tutto a posto, un po’ come quando ti ricordi che hai un gioiello e pensi “ma sta ancora lì dove l’ho lasciato dopo il matrimonio del cugino dello zio di madre?” e TAAA, vai a guardare e non lo trovi. E allora vagamente ti ritorna in mente che a un certo punto della tua vita ti sei sentita geniale e hai spostato qualcosa in un posto che ti sembrava sicurissimo, a prova di ladri. Ma cos’era, dov’era? E rimesti, rimesti tra i ricordi, fino a quando ti assale il panico e ti dici “l’ho perduto, l’ho perduto per sempre”. E poi ti dici “ma non era così importante, se ne ho fatto a meno per tutti questi giorni, questi mesi, questi anni”, per dare un senso razionale alla cosa. E niente, la verità è che il panico resta perché è vero che ne hai fatto a meno per tutti questi lunghissimi anni, ma è ancora più vero è che è così prezioso che non avresti mai dovuto tenere lontano.

Ecco, mi sono sentita così.

Ho provato esattamente 37 password diverse, 10 prima di rendermi conto di non avere idea della mail con cui mi sono registrata, creata appositamente perché al tempo mi sentivo un po’ come quelle compagnie che per eludere il fisco creano compagine e compagnie off-shore con sede in Lussemburgo e nelle isole Cayman, ma con l’unica differenza è che la gente che fa queste cose ha l’animo da ragioniere e io invece bah, io torno sempre indietro perché ho dimenticato il cellulare.

Ecco, 37 password e poi, l’illuminazione: il nome utente. La password giusta è arrivata al secondo tentativo.

Grazie, wordpress, per il tuo grande aiuto (ma anche no).

Allora, beh, ci risiamo?

Non lo so.

Ho perso due ore, quasi tre probabilmente, a cercare di risolvere questo problema e sono soddisfatta.

Ora vado a impanicarmi perché devo fare le slide che avrei dovuto finire un’ora fa, per un intervento in una lezione che non ho proprio voglia di fare.

Però prima, mi richiedo: ci risiamo? Ho voglia di tornare a scrivere della mia vita quotidiana? E soprattutto: me la sento davvero di rileggermi e assumermi il rischio di mettere nero su bianco l’evidenza che sono cambiata? O dentro di me, sotto lo strato di pensieri, di vissuto, sotto lo strato di anni e anni di vicende piene e vuote che mi hanno attraversata, sono sempre la stessa?

Vedremo.

Mobile

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Ci sono molte cose che mi stupiscono e di questo sono fiera, perché lo stupore è l’imbuto del cambiamento, un passo oltre l’immaginazione.

Il problema è che mi ri-stupisco. E la cosa di cui mi ristupisco più facilmente è quanto certe persone riescano a dipingere il quadro esatto di quello che sono, anche se mi hanno stretto per la prima volta la mano una settimana prima. È inquietante. Mi ostino a pensare che si tratti – appunto – di certe persone, collocabili sopra la media per perspicacia; ma una parte del mio cervello mi suggerisce sottovoce che il merito di questa incresciosa situazione sia mio e solo mio. Dopo lo stupore, certo. E come l’alfa e l’omega tutto questo ciclicamente si ripete, in un cerchio di stupore-saesattamenteimieipuntideboli-comefaccio-stupore, senza fine, infinitamente.

Questo post si chiama mobile perché è il primo che scrivo da cellulare, incastrato dai miei cambienti di stato e luogo. Un post moto per, a e da luogo. Mobilità, fonte inesauribile di distrazioni.

In autobus una ragazza dice all’amica: “Quante cose le sono capitate in dieci anni. È pazzesca la sua vita! Se io penso a me che ho dieci anni di meno: non ho fatto niente! E se penso che la mia vita cambierà allo stesso modo, così tanto, come a lei… non riesco a immaginare”. Chissà se tra dieci anni ricorderà questo dialogo fatto in autobus per caso, nel mezzo del moto a luogo.

Poi in metro un ragazzo suonava il violino. Un violino un punto sotto allo stridulo, ma suonava così bene! Ed è partito con Czardas e poi mi ha fatto sentire Vivaldi.

Gli spostamenti non facilitano il pensiero logico scritto.

 

 

 

 

Duemiladiciassette

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Il 2016 è cominciato portandosi via mia zia, anima dolce e silenziosa e allegra. Si è chiuso lasciandomi il vuoto di mio nonno, animo volitivo e risoluto, di chi ha creato la propria vita prendendo decisioni.

Quando mio nonno è andato via mi sono improvvisamente sentita immersa in un nuovo dolore: il dolore del bene che manca. Non so perché sia accaduto proprio con lui. Forse dipende da me. Ma ho sentito che un pezzo del bene che ricevevo si è spento. Vuoto. E la sensazione che, man mano che si va avanti, è sempre più difficile rimpiazzarlo.

[La prima volta nella mia vita in cui forse sono finita sotto la soglia minima di bene necessario?]

Sono entrata nell’età in cui alcune frasi acquistano senso. Ognuno sta solo sul cuore della terra, per esempio. Balaustrata di brezza per appoggiare stasera la mia malinconia. Occorre essere retti, non corretti.

Il 2016 mi ha portato via anche altre persone, figurativamente, del cui peso ho scelto di liberarmi. Grazie a loro ho scoperto il senso della parola ipocrisia. Il tempo passa, ma forse io crescerò veramente quando capirò che le tante opzioni alternative che a me vengono in mente non sono banali esercizi di strategia, ma strade reali che altri intraprendono. Realissime. Che se io posso pensare a una azione, altri scelgono di compierla. Anzi, l’hanno già compiuta. Ho anche scoperto che è l’onestà a contraddistinguermi, più di ogni altra cosa. Brutta storia. Brutta, brutta storia. Amico filosofo me lo diceva ai tempi dell’università e neanche quello capivo fino in fondo. Mi sembrava una cosa così neutra, l’onestà. Invece connota.

Nel 2016 ho trovato persone nuove. Non tutte belle, ma alcune intelligenti. Dovrò aver cura di loro.

Questo 2017 non so proprio cosa sarà. Dipenderà in gran parte da me, ma da quando è cominciato sento qualche scricchiolio. Ho dentro di me forze che mi spingono avanti con una forza direzionata, un po’ meno impulsiva. Ma sento che sono nella palude fino alle ginocchia. Ho comprato la mia solita agenda, questa volta a inizio dicembre, con il desiderio impellente di rifare ordine. Sembra uno di quei tempi in cui un sostegno, anche sbilenco, potrebbe fare la differenza. Spero che si faccia trovare, perché se tocca solo a me, scovarlo, alla fine del duemiladiciasette la palude mi arriverà alla vita.

Ho scritto 85 pagine in 20 giorni. 85 pagine eccellenti, mi hanno detto persone che non avevano la minima idea di cosa fossi. Ora devo scriverne 15 e mi sento come se, per digitare, avessi a disposizione solo quelle gambe impantanate nel fango. Forse perché sono per persone che conoscono me meglio di quanto io conosca me stessa.

[Ho riletto questo post. Aiuto, sono diventata Fabio Volo?]

 

 

Memoria a zero termine

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Continuo a dimenticare il mio nome utente e password di qui.

Continuamente.

Ogni volta che voglio scrivere qualcuna delle genialate che all’improvviso mi distraggono la mente.

E allora, mentre metto in piedi decine e decine di tentativi di recupero, sforzo il cervello per immedesimarmi nella me stessa al tempo  della fondazione di queste pagine e maledico una volta al minuto quella e questa me stessa per questa assurda follia della segretezza super secretata per cui le password non devono restare in nessun modo nero su bianco – dicevo? – sì, beh, allora dimentico quello che volevo scrivere.

Davvero, ho dimenticato.

La verità vera, come si dice ai tempi di oggi (come se poi la verità vera fosse davvero vera!) è che sono presa da mille cose tutte insieme, a cui non riesco ad essegnare ordini di priorità.

Per esempio, in questo esatto momento, scrivere qui, scrivere un capitolo di un(a specie di) libro da consegnare per inizio mese (!), stirare (!!), fare un giro fuori, cominciare a scrivere almeno 5000 di 20.000 parole da consegnare nel giro di un altro mese (!), prendere un altro caffè e gettarmi con la faccia sotto un cuscino hanno esattamente la stessa priorità. Una tragedia, in termini di efficienza. Ho scelto di scrivere qui lo stesso, dal momento che non mi va di rifiondarmi a capofitto nella digitazione incessante di parole serie perché, messe una dietro l’altra, quelle che da stamattina ho scritto, non sembrano avere tutta questa parvenza di senso. A ben pensarci, la stessa priorità ce l’avrebbe anche giocare al pc come quando avevo tredici anni. Ma quasi quasi metto prima di tutto un altro caffè.

Farsi sfuggire le password, quando si è nel mio cervello, è davvero un dramma.

Reset

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Quanto (quanto!) tempo è passato da quando non metto uno dietro l’altro i caratteri dei miei pensieri?

Che cosa assurda.

Ho tenuto per un anno un piccolo quadernino per cominciare a tenere a mente le massime su cui fondare le mie scelte. Forse l’ho perduto un mese fa, insieme alle mie chiavi di casa. Spero vivamente, anche per il bene della mia serratura, di ritrovarlo.

Prima ancora. Ricordo due pagine scritte fitte, di getto, seduta su una panchina del parco Sanssouci. Sento ancora il rumore delle foglie secche schiacciate sotto alle suole dei miei stivali. Il rosso e il giallo. Ma del contenuto proprio niente.

Che cosa doppiamente assurda.

Per tutti questi anni ho immaginato che lo specchio dove guardare la mia faccia illuminata (e la vera cura per capire il cono d’ombra che questo crea) fosse tante cose. Tipo ascoltare musica. Tipo camminare da sola. Tipo camminare sotto la pioggia. Tipo parlare da sola. Tipo schiacciarmi i punti neri in ascensore. Tipo chiudere gli occhi e riflettere. Tipo sbottare. Tipo parlare con la gente. Tipo guardarmi le mani. Tipo tagliarmi i capelli. Tipo leggere. Tipo continuare a lavorare. Tipo chiudermi nel mutismo. Tipo.

In questi anni ho provato tanti di questi Tipo.

Ho anche fatto cose assurde che non avrei mai immaginato di poter fare. Come prendere caffè al bar da sola. Al bancone. Davanti al barista che mi guarda se non c’è nessun altro! Che cosa terribilmente assurda per una che ha imparato a bere caffè soltanto per condividerlo con altri. Come mangiare al ristorante da sola. Magari in assurde città straniere. O, peggio, nella stessa pausa pranzo e a cinquanta metri da persone con cui condividevo sogni. Infranti. Ok, non proprio infranti. Quasi (quasi) infranti. Come dare il colpo di grazia con una telefonata. Liberatoria. Non corretta, no, ma giusta. Moralmente giusta. 

In questi anno ho imparato a ridere più fuori che dentro. Contrariamente a quanto accadeva prima, che ridevo tanto (tantissimo!) dentro, ma fuori mantenevo spesso molto contegno.

Prima.

Dicevo. Per guardare quanto era illuminata la mia faccia e quanta ombra dietro di me faceva, Prima ho cominciato a scrivere qui. Per mettere ordine e rileggere quella stramba persona che è la me stessa di dentro. Poi ho smesso. E ora sono peggio. Ho di nuovo la testa piena di cose, che vanno e vengono tutte insieme. E non serve proprio a niente ascoltare musica (anche la più incasinata di tutte). Non serve assolutamente a niente camminare, fosse anche da sola o in compagnia o di corsa o sotto la pioggia. Neanche la pioggia lava le cose che ho in testa. Neanche la doccia. Neanche le terme, se proprio devo dirla la tutta. E parlare da sola non è che sia proprio molto raccomandabile.

La vera cura per tutte le ombre che la mia testolina illuminata crea è questo. Scrivere. Possibilmente senza che nessuno di mia conoscenza legga. Perché io sono tante cose e forse quello che sono più di tutto è Riflessiva e Libera. Faccio così tanta fatica a prendere decisioni perché ancora credo che ce ne possa essere qualcuna Pareto-efficiente. E allora per sentirmi libera, ma libera davvero, devo poter decidere da sola. In solitudine. E per decidere devo analizzare. Bene. E per analizzare devo raccogliere le opinioni, parlare con gli altri, sì, e poi valutare tutto. E per valutare devo scrivere. Io sono così tremendamente diversa da quelli che decidono senza prima fermarsi. Dico quando si tratta della vita e degli affetti.

Che cosa assurdamente assurda.

Per tornare a decidere e a guardare le mie luci e le mie ombre, devo per forza tornare dentro a questo posto. Che non so dov’è, ma mi fa tanto bene.

 

 

Figurine

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Devo ammettere una cosa.

Se uno (tanto per fare un esempio: la mia Capa) dice testualmente “quella persona non è ingenua come sembra. Sarebbe capace di passare sopra la madre, per raggiungere quello che vuole” io non la devo prendere come un modo brutale di dire “è una persona determinata“. La devo prendere come l’eufemismo di  “state attenti che quella vi frega“. Dopotutto, se la mia Capa sta dove sta, un motivo ci deve pur essere.

Memo per Nephie.

1. Se la Capa non si fida di qualcuno, fatti venire almeno il dubbio che effettivamente potresti far bene a non fidarti neanche tu.

2. Tagliati una mano prima di aiutare di nuovo quella persona.

3. Ricordati che, se si hanno delle prove, un giudizio può essere espresso anche se negativo.

4. Inserire un nuovo nome nelle figurine delle “Mine vaganti da cui tenersi alla larga. Se c’è l’occasione, sfruttarla per allontanarle definitivamente”.

 

 

Big brother is watching you

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Ho riflettuto sul motivo che mi impedisce di scrivere.

Non è il tempo libero (inesistente, sì, ma a riflettere, rifletto sempre; e a scrivere i pensieri serve un attimo, soprattutto se sai che nessuno te li devi correggere).

Non è l’incertezza (“vado, non vado, vado, non vado, vado, non vado”, ed è già ora di far altro).

Non è la mia nuova vita (sostanzialmente è uguale a quella di prima).

Non è la mancanza di stimoli (vedo la gente stramba, più di prima).

Non sono i social (che hanno un’altra funzione e non mi impediscono di serbare segreti).

E’ semplicemente che ho perso la privacy. Da quando ho visto che per prendere possesso del mio pc i signori dell’help desk, di sotto, impiegano circa due nanosecondi (il tempo di raccogliere una penna caduta per terra, ad esempio). Da quando ero una stagista, con la scrivania faccia-a-muro. Da quando lavoro, in stanze che cambiano, con colleghi che vanno e vengono. Da quando tutto è diventato un po’ più serio. Da quando quello che faccio è osservato da altri.

E’ tutto un po’ più strano. Ma certe volte penso che le banalità sono il sale della vita, e che se non me le scrivo rischiano di sfuggirmi. Forse per sempre. Rendendo tutto un po’ meno gustoso.

Facciamo un esempio.

Quanto ci metterei a dimenticare dell’episodio che segue, se non lo buttassi giù, su pagina?

Location. Pranzo, tavolo di un ristorante, si mangia tra colleghi per un’occasione speciale. Uno di noi cambia lavoro, in meglio. E’ una settimana che Mario (nome inventatissimo) scassa e scassa. Non ce la fa proprio a pensare che un altro ha preso QUEL lavoro e lui no. Lui che è il migliore (autovalutazione). Lui che può tutto (autovalutazione). Nephie, dall’infinita (beh, vabbé, autovalutazione) pazienza, perde il senno. Otto ore al giorno di lamento continuo no, no, no.

Nephie: non vorrei prendere la pizza dell’altra volta, però…

Nephie: prendo la pizza dell’altra volta.

Mario (sottovoce): n’altra volta!

Nephie: un’altra volta, sì, VA BENE?

[…] Quindici minuti dopo […]

Mario: Nephie, posso prendere un’oliva nera della tua pizza?

Nephie (davanti a circa venti olive nere debitamente scartate fino a quel momento): No, credo proprio che le mangerò TUTTE.

No. Non credo dimenticherò.

“Riposati che ti vengono le occhiaie”

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Sto perdendo un po’ di pezzi, ma ci tengo a raccattarli (prima che lo faccia qualcun altro). Non conto di riuscirci, e quindi pensarci mi dà una strana sensazione di stuck.

Esiste tutto un gioco di equilibri tra quello che è opportuno e quello che non è opportuno; tra quello che si vorrebbe e quello che si deve; tra la percezione mia e quella degli altri. E il tutto legato a quella cosa così difficilmente prevedibile come i sentimenti umani. Come ho scritto in una mail, poco fa.

A tu per tu

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[…]

[…]

Ore 22.30 circa

[Nephie, diciamoci la verità: non è che un caffè, a quest’ora, ti aiuta a scrivere cose migliori.
L’unica soluzione per consegnare entro il termine che ti hanno dato,
è farti venire a prendere da Doc con la macchina del tempo].

La tua coscienza

Nephie dal cuore tenero

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Ci ho messo circa sette giorni per premere Invia su una mail in cui (con tutte le grazie del caso) liquido il (carissimo!!) gestore dello spazio di un sito che ho contribuito a far nascere.

C’è qualcosa che non va in me, in questo periodo: sto diventando una sentimentale.

Vi dico solo che quando è  morto Joe Dubois nella serie medium ho pianto, per giunta A DIROTTO (e quando dico A DIROTTO intendo con annessi singhiozzi e soffiate fragorose di naso) per circa dieci minuti.

Tra un po’ mi ritroverò a piangere anche sulle pubblicità dell’ENEL, lo so.